Mi alma – “anima mia” in ladino è l’affettuosa espressione che Rahamin rivolge ai nipoti mentre racconta la sua storia di sopravvissuto ai lager nazisti, superando profonde resistenze in nome del dovere supremo di “ricordare e raccontare”. La tragedia della Shoah, tuttavia, è vissuta come una dolorosa parentesi fra due periodi di vita intensi e sereni. Prima a Rodi, isola dell’Egeo sotto il governo italiano dal 1912, in una atmosfera di grande armonia fra greci, turchi ed ebrei, fino alla breve ma drammatica occupazione tedesca e la deportazione ad Auschwitz. Poi nel dopoguerra, in Italia, il lento ritorno alla vita, il recupero della fiducia in se stesso e nella “bontà dell’uomo” – mai abbandonata del tutto, neanche nei momenti più tristi –, il lavoro, il matrimonio, le figlie. Il recupero della normalità nel quale risiede l’eccezionalità di questa storia e nel quale può ritrovarsi un piccolo esempio dell’intima forza del popolo ebraico.
“Nonno, vuoi dire che se tu non fossi sopravvissuto ai campi noi non saremmo qui? Se tu non avessi resistito alle botte di quel soldato a Haidari, se non fossi scampato cento volte alla selezione, se la tua mano avesse urtato il filo spinato mentre passavi la scodella, se non avessero fermato quel camion pieno di gas, se non fossi guarito da quel colpo di fucile e da quella pietra sulla schiena, se gli americani fossero arrivati qualche giorno dopo, se avessi deciso di restare in Congo o emigrare in Sud Africa... se non avessi incontrato nonna Nella in quel negozio, se una di tutte queste cose fosse andata diversamente, noi non saremmo qui?”
Proprio così, mi alma